Sono passati sette anni da quel 28 settembre 2000, quando l’allora capo del Likud e futuro premier Ariel Sharon entrò, alle 7.45 del mattino, protetto da oltre 1000 uomini armati, nella Spianata delle moschee a Gerusalemme, scatenando la violentissima reazione araba che sfociò, il giorno seguente, nella cosiddetta “Seconda Intifada”, 13 anni dopo la prima.
Il 29 settembre, al termine delle preghiere del venerdì, divamparono le proteste, che si estesero, nelle settimane successive, alla Cisgiordania, a Gaza, alla Galilea.
La Spianata delle moschee, situata nelle vicinanze della città vecchia di Gerusalemme, è rivendicata sia dagli ebrei, che la considerano il monte del Tempio di Salomone, sia dagli arabi, che lo considerano il luogo dal quale Maometto ascese al Paradiso.
La visita di Sharon, che intendeva riaffermare la piena sovranità israeliana, anche in vista delle elezioni che poi avrebbe vinto, fu duramente contestata dal leader palestinese Yasser Arafat, che la definì “inaccettabile” e provò ad impedirla, recandosi in visita dall’allora premier laburista Ehud Barak, nella sua residenza a nord di Tel Aviv, ma ottenne in risposta un laconico: ”Non so che farci, questa è la democrazia”.
Dei protagonisti di allora proprio Barak è rimasto l’unico sulla scena politica, dopo la morte di Arafat e l’entrata in coma irreversibile di Sharon.
La passeggiata dell’ex premier fu il casus belli che fece precipitare una situazione già precaria, dopo che la morte di Yitzhak Rabin, assassinato da un ebreo oltranzista, aveva, di fatto, vanificato la gran parte dei trattati di pace di Oslo del 1993, cui Rabin aveva interamente dedicato gli ultimi anni della propria esistenza e che gli erano valsi, assieme all’ex grande nemico Arafat, il premio Nobel per la pace. La svolta a destra dei successivi governi israeliani, il fallimento degli accordi di Sharm al-Shaykh del 1999 peggiorarono ulteriormente il quadro.
La Seconda Intifada,ancora in atto, si differenzia dalla prima per il massiccio coinvolgimento nella sommossa anche della popolazione araba residente in Israele e per il sistematico ricorso ad attentati suicidi da parte dei kamikaze palestinesi, che in questi anni hanno insanguinato molte città dello stato ebraico, colpendo autobus, ristoranti, locali notturni. Gli israeliani, da parte loro, hanno reagito ricorrendo a rappresaglie militari e, spesso, alla demolizione di edifici e rifugi dei terroristi. Una mattanza che ha provocato, in questi sette anni, quasi 5000 morti palestinesi ed oltre 110 israeliani.
Le responsabilità di tutto è da attribuire esclusivamente a Sharon? Non pochi israeliani respingono questa tesi. Nel libro “La settima guerra” due giornalisti della prestigiosa testata ebraica Haaretz, Amos Harel e Avi Issacaroff, ricostruiscono le fasi iniziali della rivolta e sostengono che, da parte palestinese, vi furono almeno due prove generali: nel 1996, dopo che il premier del Likud Benyamin Netanyahu aprì un tunnel archeologico alla base del Muro del Pianto, poi nel maggio 2000, con le accese manifestazioni della Naqba, il giorno di lutto palestinesi per la nascita dello Stato d’Israele e l’esodo dei profughi. Gli autori sono convinti che dopo il fallimento del vertice di Camp David, con il rifiuto dell’Anp delle proposte di pace di Barak, Arafat cercasse solo un pretesto per innescare lo scontro e nulla fu meglio del plateale gesto di Sharon. Il leader palestinese pagò un prezzo altissimo alla Seconda Intifada, venendo confinato nel suo quartier generale di Ramallah, dal quale uscì solamente per andare a Parigi, dove è morto il 4 novembre 2004.
Dal 2000, nonostante l’avvicendarsi di governi, partiti, maggioranze e leader politici, poco o nulla è cambiato, la road map è ben lontana dall’essere applicata, gli scontri sono meno frequenti ma non sono mai cessati. L’erede di Arafat, Abu Mazen, unico interlocutore della diplomazia internazionale nei tavoli della pace, ha però dichiarato che Israele e Autorità Nazionale Palestinese potrebbero firmare un accordo di pace entro maggio del 2008, sei mesi dopo la conferenza di pace internazionale sul Medio Oriente di metà novembre a Washington, che dovrebbe definire le questioni di principio sullo status finale dei territori palestinesi . L’ultimo episodio significativo, in questa contesa senza né vinti, né vincitori, è stato però lo smantellamento delle colonie ebraiche della striscia di Gaza, fortemente voluto da Sharon nell’estate di due anni fa, in un drammatico scontro tra coloni e soldati.
Il settimo anniversario della passeggiata sulla Spianata delle Moschee, che coincide con il terzo venerdì di preghiera del Ramadan, è trascorso intanto in un clima teso, blindato da 4000 agenti e scosso dall’eco dei combattimenti di Gaza. Hamas ha già promesso vendetta, annunciando di avere 400 uomini bomba pronti a lanciarsi contro i carri armati israeliani.
sabato 29 settembre 2007
mercoledì 26 settembre 2007
La mano di Al Qaeda sull'Algeria (per L'Occidentale)
L’Algeria continua ad essere insanguinata dal terrorismo. Venerdì 21 lo stato magrebino è stato teatro, nell’area montuosa di Bouiran, regione della Cabilia, di un altro attentato suicida. Bersaglio di un kamikaze lanciatosi con un auto, il veicolo che trasportava i dipendenti della Rezal, una società francese operante nel settore delle infrastrutture. Nove i feriti, tra i quali un italiano e due francesi.
Dall’inizio di settembre è il quinto attentato, dall’inizio del Ramadan il terzo. In sole quarantotto ore, tra il 6 e l’8 settembre circa cinquanta persone sono morte in due distinte azioni terroristiche: il primo a Batna contro il corteo del presidente Bouteflika, il secondo a Dellys, contro una caserma della Marina Militare. Il 14 settembre un ordigno è esploso davanti ad posto di polizia a Zemmouri, provocando sei morti. Il 19 una bomba è deflagrata contro una pattuglia della Guardia comunale, sempre in Cabilia, uccidendo un uomo.
La jihad dopo aver colpito istituzioni politiche, Forze Armate e forze dell’ordine, sposta ora il tiro sull’Occidente, in particolare sull’ex colonizzatore francese. Al Zawairi, numero due di Al Qaeda, che ha rivendicato l’attentato, era stato chiaro nel suo proclama televisivo: ”Ripulite il Maghreb dai figli di Francia e di Spagna”. Parigi, per bocca del ministro degli Esteri Bernard Kouchner, ha preso molto seriamente le minacce ed ha aumentato le misure di sicurezza, rimpatriando immediatamente due connazionali dopo un fallito tentativo di rapimento.
Al Qaeda ha dunque intensificato le sue attività nel Maghreb. D’alleanza con i terroristi del Gruppo salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), è scaturita l’“Organizzazione di Al Qaeda nel Maghreb islamico”, che ha già dimostrato di saper colpire con tragica cadenza. La Gspc venne fondata nel 1998 da Hassan Hattab, in un’Algeria insanguinata dalla guerra civile tra esercito e gruppi islamici. Dalla scissione di uno di questi, il Gruppo Islamico Armato (Gia), criticato per i massacri di civili innocenti, nacque appunto la Gspc. A settembre 2003, il posto di Hattab fu preso da Nabil Sahraoui, trentanovenne ex comandante del Gia, successivamente ucciso nel 2004, ma che prima riuscì a convincere il Gspc ad aderire alla rete terroristica di Al Qaeda. Hattab, sconfitto dall’ala più integralista, si opponeva all’affiliazione sostenendo invece la necessità di sottoscrivere l’amnistia offerta dal governo di Algeri.
Proprio sull’affiliazione ad Al Qaeda restano divisioni all’interno del mondo del fondamentalismo, che si trasformano in vere e proprie faide, come quella tra Benmessaud Abdelmalek, capo della zona IX (un tratto strategico del territorio algerino, dove passano uomini, armi e denaro), e il leader della Gspc Abdelmalek Droukdel. Mentre la strategia del primo punta a un jihad globale, in stile Al Qaeda, il secondo considera prioritaria la lotta ad Algeri. La defezione di Abdelmalek priverebbe quindi il jihad di una base logistica importantissima. Le conseguenze di queste faide non sono ancora prevedibili, né tantomeno le posizioni di forza e subalternità all’interno tra le organizzazioni terroristiche. Il dato certo è che lo scenario maghrebino permarrà il più caldo, considerando la costante capacità di Al Qaeda di reclutare forze fresche e di realizzare prontamente attentati dal forte impatto mediatico. Intanto, anche il vecchio combattente Hassan Hattab ha annunciato il proprio ritorno in clandestinità. Ufficialmente è schierato con Droukdel, ma sulle sue reali intenzioni nessuno è disposto a sbilanciarsi e la sua presenza potrebbe aprire un nuovo fronte interno
Manuel Fondato
Dall’inizio di settembre è il quinto attentato, dall’inizio del Ramadan il terzo. In sole quarantotto ore, tra il 6 e l’8 settembre circa cinquanta persone sono morte in due distinte azioni terroristiche: il primo a Batna contro il corteo del presidente Bouteflika, il secondo a Dellys, contro una caserma della Marina Militare. Il 14 settembre un ordigno è esploso davanti ad posto di polizia a Zemmouri, provocando sei morti. Il 19 una bomba è deflagrata contro una pattuglia della Guardia comunale, sempre in Cabilia, uccidendo un uomo.
La jihad dopo aver colpito istituzioni politiche, Forze Armate e forze dell’ordine, sposta ora il tiro sull’Occidente, in particolare sull’ex colonizzatore francese. Al Zawairi, numero due di Al Qaeda, che ha rivendicato l’attentato, era stato chiaro nel suo proclama televisivo: ”Ripulite il Maghreb dai figli di Francia e di Spagna”. Parigi, per bocca del ministro degli Esteri Bernard Kouchner, ha preso molto seriamente le minacce ed ha aumentato le misure di sicurezza, rimpatriando immediatamente due connazionali dopo un fallito tentativo di rapimento.
Al Qaeda ha dunque intensificato le sue attività nel Maghreb. D’alleanza con i terroristi del Gruppo salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), è scaturita l’“Organizzazione di Al Qaeda nel Maghreb islamico”, che ha già dimostrato di saper colpire con tragica cadenza. La Gspc venne fondata nel 1998 da Hassan Hattab, in un’Algeria insanguinata dalla guerra civile tra esercito e gruppi islamici. Dalla scissione di uno di questi, il Gruppo Islamico Armato (Gia), criticato per i massacri di civili innocenti, nacque appunto la Gspc. A settembre 2003, il posto di Hattab fu preso da Nabil Sahraoui, trentanovenne ex comandante del Gia, successivamente ucciso nel 2004, ma che prima riuscì a convincere il Gspc ad aderire alla rete terroristica di Al Qaeda. Hattab, sconfitto dall’ala più integralista, si opponeva all’affiliazione sostenendo invece la necessità di sottoscrivere l’amnistia offerta dal governo di Algeri.
Proprio sull’affiliazione ad Al Qaeda restano divisioni all’interno del mondo del fondamentalismo, che si trasformano in vere e proprie faide, come quella tra Benmessaud Abdelmalek, capo della zona IX (un tratto strategico del territorio algerino, dove passano uomini, armi e denaro), e il leader della Gspc Abdelmalek Droukdel. Mentre la strategia del primo punta a un jihad globale, in stile Al Qaeda, il secondo considera prioritaria la lotta ad Algeri. La defezione di Abdelmalek priverebbe quindi il jihad di una base logistica importantissima. Le conseguenze di queste faide non sono ancora prevedibili, né tantomeno le posizioni di forza e subalternità all’interno tra le organizzazioni terroristiche. Il dato certo è che lo scenario maghrebino permarrà il più caldo, considerando la costante capacità di Al Qaeda di reclutare forze fresche e di realizzare prontamente attentati dal forte impatto mediatico. Intanto, anche il vecchio combattente Hassan Hattab ha annunciato il proprio ritorno in clandestinità. Ufficialmente è schierato con Droukdel, ma sulle sue reali intenzioni nessuno è disposto a sbilanciarsi e la sua presenza potrebbe aprire un nuovo fronte interno
Manuel Fondato
martedì 11 settembre 2007
La Direttiva 38 (per L'Occidentale)
La sinistra radicale ha già incoccato le frecce contro il ministro dell’Interno Amato, a causa delle misure che il governo si appresta a varare sulla microcriminalità. Se Liberazione, quotidiano di Rifondazione Comunista, ha sottolineato il carattere strumentale e demagogico dei provvedimenti, proposti a loro dire per ”accarezzare le pance dell'elettore medio, solleticarlo nelle sue paure e nel suo bisogno di messaggi simbolici forti..”, Il Manifesto, senza mezzi termini, ha bollato il titolare del Viminale come “il bandito Giuliano”. Sempre Rifondazione, per bocca del suo segretario Franco Giordano, ha definito “reazionario inseguire le destre sul loro stesso terreno”; come se la sicurezza avesse un colore politico (nero).
Anche Verdi e Comunisti Italiani si oppongono al giro di vite contro lavavetri, prostitute, mendicanti e nomadi. Nel caso di questi ultimi si pone anche un delicato problema giuridico, dal momento che l’espulsione costituirebbe un vulnus, considerata la loro condizione (se rumeni o polacchi) di cittadini comunitari. Lo strumento normativo invece esiste, ed è stato emanato dalla stessa Unione Europea che, nella Direttiva 38 del 2004, disciplina il diritto dei cittadini a circolare e soggiornare liberamente all’interno degli stati membri. Nell’articolo 7, però, viene posta la conditio sine qua non di “disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti “ per soggiorni superiori a tre mesi. Chi non ha occupazione o denaro può essere quindi espulso senza che vengano lesi i propri diritti. Fin qui solo teoria; perché la Direttiva 38, che è già entrata in vigore in Francia ed in altri paesi, in Italia non è stata mai recepita, come ha ricordato, in un’intervista alla Stampa, il vicepresidente della Commissione Europea Franco Frattini, che, per primo, ha imbeccato il ministro Amato, convincendolo dell’efficacia di tale norma. Il Viminale dovrà ora stabilire solamente quale sia la soglia di queste “risorse economiche sufficienti”. Successivamente toccherà a regioni e comuni adottare il provvedimento nelle aree di loro competenza.
Nel mondo politico Forza Italia si è subito dichiarata favorevole. Il senatore Malan ha annunciato un disegno di legge per collocare a 550 euro, in linea con le pensioni minime innalzate dal governo Berlusconi, il livello minimo di reddito per risiedere nel nostro paese. A Roma, città che ha molti problemi con la gestione dei campi Rom e con la criminalità rumena, il coordinatore azzurro Francesco Giro, già autore del famoso video di denuncia sul degrado di Trastevere, ha chiesto l’immediata applicazione della Direttiva 38 alla regione ed al comune, sostenuto dai capigruppo forzisti Pallone e Baldi. Sono scesi in campo anche due primi cittadini illustri, Sergio Cofferati e Leonardo Domenici, che non hanno escluso di richiedere poteri di polizia giudiziaria per i sindaci.
La frattura all’interno del centrosinistra e del governo sembra sempre più ampia. L’esecutivo dovrà però recuperare coesione e collegialità in vista di una finanziaria che, come sempre, sarà un banco di prova importante e scontenterà certamente qualche pezzo della maggioranza
Manuel Fondato
Anche Verdi e Comunisti Italiani si oppongono al giro di vite contro lavavetri, prostitute, mendicanti e nomadi. Nel caso di questi ultimi si pone anche un delicato problema giuridico, dal momento che l’espulsione costituirebbe un vulnus, considerata la loro condizione (se rumeni o polacchi) di cittadini comunitari. Lo strumento normativo invece esiste, ed è stato emanato dalla stessa Unione Europea che, nella Direttiva 38 del 2004, disciplina il diritto dei cittadini a circolare e soggiornare liberamente all’interno degli stati membri. Nell’articolo 7, però, viene posta la conditio sine qua non di “disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti “ per soggiorni superiori a tre mesi. Chi non ha occupazione o denaro può essere quindi espulso senza che vengano lesi i propri diritti. Fin qui solo teoria; perché la Direttiva 38, che è già entrata in vigore in Francia ed in altri paesi, in Italia non è stata mai recepita, come ha ricordato, in un’intervista alla Stampa, il vicepresidente della Commissione Europea Franco Frattini, che, per primo, ha imbeccato il ministro Amato, convincendolo dell’efficacia di tale norma. Il Viminale dovrà ora stabilire solamente quale sia la soglia di queste “risorse economiche sufficienti”. Successivamente toccherà a regioni e comuni adottare il provvedimento nelle aree di loro competenza.
Nel mondo politico Forza Italia si è subito dichiarata favorevole. Il senatore Malan ha annunciato un disegno di legge per collocare a 550 euro, in linea con le pensioni minime innalzate dal governo Berlusconi, il livello minimo di reddito per risiedere nel nostro paese. A Roma, città che ha molti problemi con la gestione dei campi Rom e con la criminalità rumena, il coordinatore azzurro Francesco Giro, già autore del famoso video di denuncia sul degrado di Trastevere, ha chiesto l’immediata applicazione della Direttiva 38 alla regione ed al comune, sostenuto dai capigruppo forzisti Pallone e Baldi. Sono scesi in campo anche due primi cittadini illustri, Sergio Cofferati e Leonardo Domenici, che non hanno escluso di richiedere poteri di polizia giudiziaria per i sindaci.
La frattura all’interno del centrosinistra e del governo sembra sempre più ampia. L’esecutivo dovrà però recuperare coesione e collegialità in vista di una finanziaria che, come sempre, sarà un banco di prova importante e scontenterà certamente qualche pezzo della maggioranza
Manuel Fondato
giovedì 6 settembre 2007
Monaco 1972, l’attacco allo sport del terrorismo palestinese (per L'Occidentale)
Sono passati 35 anni da quel giorno di settembre in cui il terrorismo si impadronì anche dello sport, insanguinandone la liturgia più alta e nobile: quella dei giochi olimpici. La XX olimpiade si era aperta a Monaco di Baviera il 26 agosto 1972, per concludersi l’11 settembre (che diverrà un’altra data di lutto). Un commando palestinese dell’organizzazione “Settembre Nero” penetrò nel villaggio olimpico riuscendo, dopo ore di estenuanti trattative ed un tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca, a sterminare 11 atleti israeliani.
L’ideazione di questo atto criminale e dimostrativo ebbe origine a Roma il 15 luglio 1972, quando due alti esponenti di Al Fatah, Mohammed Daoud Oudeh,
conosciuto come Abu Daoud, e Salah Khalaf, conosciuto come Abu Iyad, si incontrarono al tavolo di un bar di Piazza della Rotonda con Abu Mohammed,
dirigente di "Settembre Nero" che, l’8 maggio dello stesso anno, aveva dirottato senza successo un aereo belga in volo da Vienna a Tel Aviv, perdendo tutti i propri uomini.
La volontà di riscattarsi, di porre la questione palestinese all’attenzione del mondo ed il rifiuto del Cio (Comitato Olimpico Internazionale) di
ammettere una delegazione palestinese ai giochi, spinsero alla scelta di Monaco come teatro di una nuova azione spettacolare. La preparazione del piano fu meticolosa, così come il reclutamento degli uomini, selezionati a Chatila ed addestrati in Libia. Arrivati in Germania a coppie, come i futuri dirottatori dell’11 settembre 2001 si mimetizzarono tra la gente comune, assistettero ad alcune gare, fecero i turisti. Penetrarono agevolmente nel villaggio olimpico, approfittando anche dello scarso livello di sicurezza, effetto della particolare situazione dell’allora Germania Ovest. La Repubblica Federale Tedesca, a nemmeno 30 anni dalla disastrosa sconfitta del Terzo Reich, voleva allontanare gli spettri di Monaco ’36, evitando le militarizzazioni hitleriane e la presenza invasiva della polizia.
I fedayn fecero irruzione in piena notte. Nella violentissima colluttazione che scaturì dalla reazione israeliana furono uccisi subito due atleti: Moshe Weinberg e Yossef Romano. La tragica notizia si diffuse subito per tutto il villaggio ma, vergognosamente, nessuno sospese le gare. I tedeschi assemblarono un'unità di crisi composta dal capo della polizia di Monaco, Manfred Schreiber, dal ministro federale degli Interni, Hans-Dietrich Genscher, e dal ministro degli Interni della Baviera, Bruno Merk. Il cancelliere federale, Willy Brandt, contattò immediatamente il primo ministro israeliano, Golda Meir, per rendere note le richieste dei terroristi e cercare una soluzione al caso. La posizione del governo di Israele fu fermissima: nessuna concessione al ricatto dei terroristi. Dopo ore di infruttuose trattative ed ipotesi di liberazione fu deciso di trasferire gli ostaggi per tentare di liberarli in aeroporto. Giunti all’aeroporto una lunga serie di negligenze ed errori di valutazione portarono alla morte di tutti i 9 ostaggi superstiti, di 5 terroristi e di un poliziotto tedesco. All’1:30 del 6 settembre 1972 tutto era tragicamente concluso.
Il Governo di Gerusalemme, in risposta al massacro, intraprese una rappresaglia non convenzionale, condotta in tutta Europa dal Mossad per eliminare fisicamente i responsabili coinvolti nella strage, rievocata magistralmente da Steven Spielberg nel suo “Munich”.
Manuel Fondato
L’ideazione di questo atto criminale e dimostrativo ebbe origine a Roma il 15 luglio 1972, quando due alti esponenti di Al Fatah, Mohammed Daoud Oudeh,
conosciuto come Abu Daoud, e Salah Khalaf, conosciuto come Abu Iyad, si incontrarono al tavolo di un bar di Piazza della Rotonda con Abu Mohammed,
dirigente di "Settembre Nero" che, l’8 maggio dello stesso anno, aveva dirottato senza successo un aereo belga in volo da Vienna a Tel Aviv, perdendo tutti i propri uomini.
La volontà di riscattarsi, di porre la questione palestinese all’attenzione del mondo ed il rifiuto del Cio (Comitato Olimpico Internazionale) di
ammettere una delegazione palestinese ai giochi, spinsero alla scelta di Monaco come teatro di una nuova azione spettacolare. La preparazione del piano fu meticolosa, così come il reclutamento degli uomini, selezionati a Chatila ed addestrati in Libia. Arrivati in Germania a coppie, come i futuri dirottatori dell’11 settembre 2001 si mimetizzarono tra la gente comune, assistettero ad alcune gare, fecero i turisti. Penetrarono agevolmente nel villaggio olimpico, approfittando anche dello scarso livello di sicurezza, effetto della particolare situazione dell’allora Germania Ovest. La Repubblica Federale Tedesca, a nemmeno 30 anni dalla disastrosa sconfitta del Terzo Reich, voleva allontanare gli spettri di Monaco ’36, evitando le militarizzazioni hitleriane e la presenza invasiva della polizia.
I fedayn fecero irruzione in piena notte. Nella violentissima colluttazione che scaturì dalla reazione israeliana furono uccisi subito due atleti: Moshe Weinberg e Yossef Romano. La tragica notizia si diffuse subito per tutto il villaggio ma, vergognosamente, nessuno sospese le gare. I tedeschi assemblarono un'unità di crisi composta dal capo della polizia di Monaco, Manfred Schreiber, dal ministro federale degli Interni, Hans-Dietrich Genscher, e dal ministro degli Interni della Baviera, Bruno Merk. Il cancelliere federale, Willy Brandt, contattò immediatamente il primo ministro israeliano, Golda Meir, per rendere note le richieste dei terroristi e cercare una soluzione al caso. La posizione del governo di Israele fu fermissima: nessuna concessione al ricatto dei terroristi. Dopo ore di infruttuose trattative ed ipotesi di liberazione fu deciso di trasferire gli ostaggi per tentare di liberarli in aeroporto. Giunti all’aeroporto una lunga serie di negligenze ed errori di valutazione portarono alla morte di tutti i 9 ostaggi superstiti, di 5 terroristi e di un poliziotto tedesco. All’1:30 del 6 settembre 1972 tutto era tragicamente concluso.
Il Governo di Gerusalemme, in risposta al massacro, intraprese una rappresaglia non convenzionale, condotta in tutta Europa dal Mossad per eliminare fisicamente i responsabili coinvolti nella strage, rievocata magistralmente da Steven Spielberg nel suo “Munich”.
Manuel Fondato
mercoledì 5 settembre 2007
Nucleare, la Corea del Nord resta nell’Asse del Male (per L'Occidentale)
Il 29 gennaio 2002 George W. Bush, in occasione del discorso sullo Stato dell’Unione, coniò la celebre espressione “Asse del male” (axis of evil) riferendosi a tre nazioni: Iraq, Iran e Corea del Nord, favorevoli al terrorismo e impegnate nello sviluppo di armi di distruzione di massa. Cinque anni dopo, in un contesto geopolitico parzialmente mutato, l’Iran di Mahmoud Ahmadinejad rimane l’unico dei tre“Stati canaglia” ad essere ancora in aperto contrasto con Washington. In Iraq è in corso la delicatissima fase di stabilizzazione democratica e civile del dopo Saddam. La Corea del Nord, invece, sta negoziando per uscire dalla black list, a condizione di un completo smantellamento delle proprie installazioni nucleari. Domenica 2 settembre il mediatore di Bush, Cristopher Hill, ha annunciato al termine dei colloqui bilaterali di Ginevra che la Corea eliminerà, entro il 2007, tutti i programmi nucleari in corso e che di questi è pronta a fornire l’elenco completo; ma ha anche aggiunto che Pyongyang dovrà lavorare ancora duramente prima di essere cancellata dall’elenco del male, smentendo così le ottimistiche previsioni del ministro degli Esteri nordcoreano, Park Yil Chun.
La questione nucleare nella penisola asiatica ha avuto inizio nel secolo scorso. Negli anni 60 e 70, per risolvere il problema della scarsità delle risorse elettriche e di materie prime, la Corea del Nord ha cominciato a costruire il reattore nucleare di Yongbyon. Nel 1990 gli Stati Uniti, secondo foto scattate dai satelliti, hanno sospettato la Corea del Nord del possesso di infrastrutture destinate allo studio e alla fabbricazione di armi nucleari, affermando di voler effettuare controlli negli impianti. Il regime ha negato a più riprese la sua intenzione e capacità di fabbricare armi nucleari, accusando gli Stati Uniti di essere una minaccia per la propria sicurezza a causa del dislocamento di armi nucleari nella Corea del Sud.
Nell'ottobre 1994, a Ginevra, Corea del Nord e Stati Uniti hanno firmato un accordo quadro sul dossier nucleare. Secondo il trattato, la parte nordcoreana acconsentiva al blocco del piano nucleare, mentre l'Organizzazione per lo sfruttamento delle risorse energetiche della penisola coreana, guidata dagli Stati Uniti, era responsabile della costruzione di un reattore all’acqua leggera di 2000 megawattore o di due reattori all'acqua leggera di mille megawattore, al fine di risolvere il problema della scarsa elettricità; prima della costruzione dei reattori, l'Organizzazione avrebbe dovuto fornire 500 mila tonnellate l’anno di olio pesante alla Corea del Nord. Tuttavia, per una serie di motivi, il progetto dei reattori all'acqua leggera è iniziato solo nell’agosto 2002.
Nell'ottobre dello stesso anno, al termine della sua visita a Pyongyang, l'inviato speciale del presidente americano, James Kelly, ha dichiarato che la Corea del Nord ha ammesso di avere in corso un programma per lo sfruttamento dell'uranio arricchito, ponendo così il problema nucleare al centro dell'attenzione della comunità internazionale. Il governo di Kim Il Jong tuttavia ha sempre negato di aver riconosciuto ufficialmente l'esistenza del piano.
Dopo che gli Stati Uniti hanno smesso di fornire l'olio pesante, il 22 dicembre 2002 la Corea del Nord ha stabilito l'annullamento del blocco nucleare, demolito gli impianti di monitoraggio installati dall'AIEA nelle sue strutture nucleari, e rilasciato, il 10 gennaio 2003, una dichiarazione sul suo ritiro dal "Trattato di non proliferazione nucleare", minacciando oltretutto di far cadere l’accordo sul cessate il fuoco con la Corea del Sud. Da allora la situazione nella penisola coreana si è fatta sempre più tesa. La comunità internazionale si è attivata dando vita a ripetuti colloqui a sei, che includevano, oltre a Corea del Nord e Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia e Corea del Sud, con l’obiettivo di raggiungere una soluzione diplomatica. Due anni fa Pyongyang ha accettato di abbandonare il suo programma nucleare in cambio di aiuti economici e di aperture diplomatiche. Ma, nell’ottobre del 2006, effettuando il suo primo test nucleare, ha sollevato molti dubbi sulle sue reali intenzioni.
Nuovi colloqui hanno portato, nel luglio scorso, alla chiusura del principale reattore di Yongbyon, dietro pagamento di 50 mila tonnellate di petrolio. L’oro nero, secondo gli accordi, compenserà anche la prossima adempienza della Corea del Nord con la quantità di 950 mila tonnellate.
La mediazione di Hill, investito di pieni poteri dal segretario di Stato Condoleezza Rice, rivela un’inversione di tendenza rispetto all’iniziale politica dell’amministrazione Bush, complice anche l’uscita di scena di alcuni “falchi” come l’ex ambasciatore alle Nazioni Unite John Bolton. Tuttavia le concessioni americane, considerate eccessive, hanno provocato non pochi malumori a Washington tra quanti, compreso lo stesso Bolton, che lo ha scritto sul Wall Street Journal asiatico, ritengono che Pyongyang stia giocando ambiguamente su più tavoli per ottenere il massimo profitto, senza abbandonare realmente il programma nucleare, né indicare l’effettivo numero di armi ed impianti.
Per il momento le parti proseguono con la massima cautela. La nuova sessione di negoziati a sei si terrà il mese prossimo a Pechino
Manuel Fondato
La questione nucleare nella penisola asiatica ha avuto inizio nel secolo scorso. Negli anni 60 e 70, per risolvere il problema della scarsità delle risorse elettriche e di materie prime, la Corea del Nord ha cominciato a costruire il reattore nucleare di Yongbyon. Nel 1990 gli Stati Uniti, secondo foto scattate dai satelliti, hanno sospettato la Corea del Nord del possesso di infrastrutture destinate allo studio e alla fabbricazione di armi nucleari, affermando di voler effettuare controlli negli impianti. Il regime ha negato a più riprese la sua intenzione e capacità di fabbricare armi nucleari, accusando gli Stati Uniti di essere una minaccia per la propria sicurezza a causa del dislocamento di armi nucleari nella Corea del Sud.
Nell'ottobre 1994, a Ginevra, Corea del Nord e Stati Uniti hanno firmato un accordo quadro sul dossier nucleare. Secondo il trattato, la parte nordcoreana acconsentiva al blocco del piano nucleare, mentre l'Organizzazione per lo sfruttamento delle risorse energetiche della penisola coreana, guidata dagli Stati Uniti, era responsabile della costruzione di un reattore all’acqua leggera di 2000 megawattore o di due reattori all'acqua leggera di mille megawattore, al fine di risolvere il problema della scarsa elettricità; prima della costruzione dei reattori, l'Organizzazione avrebbe dovuto fornire 500 mila tonnellate l’anno di olio pesante alla Corea del Nord. Tuttavia, per una serie di motivi, il progetto dei reattori all'acqua leggera è iniziato solo nell’agosto 2002.
Nell'ottobre dello stesso anno, al termine della sua visita a Pyongyang, l'inviato speciale del presidente americano, James Kelly, ha dichiarato che la Corea del Nord ha ammesso di avere in corso un programma per lo sfruttamento dell'uranio arricchito, ponendo così il problema nucleare al centro dell'attenzione della comunità internazionale. Il governo di Kim Il Jong tuttavia ha sempre negato di aver riconosciuto ufficialmente l'esistenza del piano.
Dopo che gli Stati Uniti hanno smesso di fornire l'olio pesante, il 22 dicembre 2002 la Corea del Nord ha stabilito l'annullamento del blocco nucleare, demolito gli impianti di monitoraggio installati dall'AIEA nelle sue strutture nucleari, e rilasciato, il 10 gennaio 2003, una dichiarazione sul suo ritiro dal "Trattato di non proliferazione nucleare", minacciando oltretutto di far cadere l’accordo sul cessate il fuoco con la Corea del Sud. Da allora la situazione nella penisola coreana si è fatta sempre più tesa. La comunità internazionale si è attivata dando vita a ripetuti colloqui a sei, che includevano, oltre a Corea del Nord e Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia e Corea del Sud, con l’obiettivo di raggiungere una soluzione diplomatica. Due anni fa Pyongyang ha accettato di abbandonare il suo programma nucleare in cambio di aiuti economici e di aperture diplomatiche. Ma, nell’ottobre del 2006, effettuando il suo primo test nucleare, ha sollevato molti dubbi sulle sue reali intenzioni.
Nuovi colloqui hanno portato, nel luglio scorso, alla chiusura del principale reattore di Yongbyon, dietro pagamento di 50 mila tonnellate di petrolio. L’oro nero, secondo gli accordi, compenserà anche la prossima adempienza della Corea del Nord con la quantità di 950 mila tonnellate.
La mediazione di Hill, investito di pieni poteri dal segretario di Stato Condoleezza Rice, rivela un’inversione di tendenza rispetto all’iniziale politica dell’amministrazione Bush, complice anche l’uscita di scena di alcuni “falchi” come l’ex ambasciatore alle Nazioni Unite John Bolton. Tuttavia le concessioni americane, considerate eccessive, hanno provocato non pochi malumori a Washington tra quanti, compreso lo stesso Bolton, che lo ha scritto sul Wall Street Journal asiatico, ritengono che Pyongyang stia giocando ambiguamente su più tavoli per ottenere il massimo profitto, senza abbandonare realmente il programma nucleare, né indicare l’effettivo numero di armi ed impianti.
Per il momento le parti proseguono con la massima cautela. La nuova sessione di negoziati a sei si terrà il mese prossimo a Pechino
Manuel Fondato
lunedì 3 settembre 2007
La figura del Generale Dalla Chiesa(per L'Occidentale)
La figura del Generale Dalla Chiesa contro la cultura del terrorismo
di Manuel Fondato
Quando fu ucciso, il 3 settembre di 25 anni fa, Carlo Alberto Dalla Chiesa era Prefetto di Palermo da poco più di cento giorni, trascorsi, nella maggior parte, a chiedere poteri speciali con i quali contrastare una mafia che aveva insanguinato quel 1982. Poteri che arrivarono al suo successore De Francesco tre giorni dopo l’agguato di Via Carini, quando un decreto del Governo Spadolini istituì la figura dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia.
Il Generale conosceva bene la Sicilia fin dal 1949, quando fu destinato in una Sicilia afflitta dagli aneliti separatisti dell’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia) e dove Cosa Nostra stava uscendo dal sottobosco del latifondismo e dei gabellotti per dedicarsi alle speculazioni edilizie. Indagò sull’omicidio di Placido Rizzotto, incriminando Luciano Liggio, e sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ma erano anni in cui l’esistenza della mafia non era nemmeno considerata certa e dimostrabile; anni di cui Leonardo Sciascia sbozzò un eccellente spaccato ne” Il Giorno della civetta”, il cui protagonista, il capitano dei carabinieri Bellodi, è molto simile a Dalla Chiesa.
Lasciata la Sicilia iniziò a dedicarsi all’incipiente terrorismo di stampo brigatista, in quella che fu la sua battaglia più incisiva e determinante per la tenuta dello Stato e delle libere istituzioni. La struttura antiterrorismo, da lui creata nel 1973, rivoluzionò l’approccio al fenomeno eversivo e fu decisiva nel disarticolare il primo nucleo brigatista, che ruotava attorno ai fondatori Curcio e Franceschini, arrestati a Pinerolo nel 1974, grazie anche all’infiltrazione di Silvano Girotto detto “frate mitra”. I carabinieri dell’antiterrorismo erano segugi allo stato puro, armati di teleobiettivi e di una certosina pazienza nell’appostarsi e attendere ore. Devotissimi al loro comandante e alla causa, crearono un prototipo di investigatore “invisibile” per la sua capacità di infiltrarsi e mimetizzarsi.
Il brigatista Patrizio Peci ha dichiarato recentemente: “Sapevamo chi erano e come lavoravano gli uomini della Digos ma non sapevamo nulla dei carabinieri dell’antiterrorismo. Dalla Chiesa era il nostro nemico peggiore perché era invisibile”. Uno di questi “invisibili”, che operava con il nome di Ciondolo, abile come pochi a muoversi nella notte, era riuscito a sapere, con largo anticipo, dei preparativi per l’omicidio del giornalista Walter Tobagi. Nessuno prese in considerazione le informazioni di Ciondolo, palesando un malessere che oramai gravitava attorno a Dalla Chiesa e ai suoi uomini. I metodi, l’autonomia e i poteri speciali di cui il nucleo antiterrorismo godeva cominciavano a disturbare al punto che si arrivò allo scioglimento del gruppo. Gli insegnamenti e lo spirito degli “invisibili” furono ripresi anni dopo da alcuni carabinieri del R.O.S che, adoperando gli stessi metodi abbinati alla moderna tecnologia, riuscirono nell’impresa di arrestare Totò Riina nel 1993.
A 25 anni dalla morte il Generale è ancora vivo nell’Arma; le sue intuizioni, i suoi metodi innovativi sono patrimonio di ogni attività investigativa ma, soprattutto, è ancora vivo il ricordo della straordinaria capacità di gestire i suoi uomini, ottenendo da loro il massimo nelle condizioni più impervie. Aveva sconfitto il terrorismo rosso e, se avesse vinto anche la mafia, nessun obiettivo gli sarebbe più stato precluso a coronamento di una vita trascorsa con indosso la divisa da carabiniere, con una fama di duro e qualche ombra che non scalfisce il profilo morale, che resta altissimo. Dalla Chiesa rimane un ufficiale che ha diviso, ha suscitato passioni e polemiche, applausi ed odio, ma è indiscutibile il contributo alla legalità e alla democrazia di un uomo che non si è tirato indietro nel momento che presagiva sarebbe giunto: quando una raffica di kalasnikov lo uccide la sera del 3 settembre 1982, a Palermo, assieme alla giovanissima moglie Emanuela Setti Carraro e al poliziotto Domenico Russo.
Manuel Fondato
di Manuel Fondato
Quando fu ucciso, il 3 settembre di 25 anni fa, Carlo Alberto Dalla Chiesa era Prefetto di Palermo da poco più di cento giorni, trascorsi, nella maggior parte, a chiedere poteri speciali con i quali contrastare una mafia che aveva insanguinato quel 1982. Poteri che arrivarono al suo successore De Francesco tre giorni dopo l’agguato di Via Carini, quando un decreto del Governo Spadolini istituì la figura dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia.
Il Generale conosceva bene la Sicilia fin dal 1949, quando fu destinato in una Sicilia afflitta dagli aneliti separatisti dell’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia) e dove Cosa Nostra stava uscendo dal sottobosco del latifondismo e dei gabellotti per dedicarsi alle speculazioni edilizie. Indagò sull’omicidio di Placido Rizzotto, incriminando Luciano Liggio, e sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ma erano anni in cui l’esistenza della mafia non era nemmeno considerata certa e dimostrabile; anni di cui Leonardo Sciascia sbozzò un eccellente spaccato ne” Il Giorno della civetta”, il cui protagonista, il capitano dei carabinieri Bellodi, è molto simile a Dalla Chiesa.
Lasciata la Sicilia iniziò a dedicarsi all’incipiente terrorismo di stampo brigatista, in quella che fu la sua battaglia più incisiva e determinante per la tenuta dello Stato e delle libere istituzioni. La struttura antiterrorismo, da lui creata nel 1973, rivoluzionò l’approccio al fenomeno eversivo e fu decisiva nel disarticolare il primo nucleo brigatista, che ruotava attorno ai fondatori Curcio e Franceschini, arrestati a Pinerolo nel 1974, grazie anche all’infiltrazione di Silvano Girotto detto “frate mitra”. I carabinieri dell’antiterrorismo erano segugi allo stato puro, armati di teleobiettivi e di una certosina pazienza nell’appostarsi e attendere ore. Devotissimi al loro comandante e alla causa, crearono un prototipo di investigatore “invisibile” per la sua capacità di infiltrarsi e mimetizzarsi.
Il brigatista Patrizio Peci ha dichiarato recentemente: “Sapevamo chi erano e come lavoravano gli uomini della Digos ma non sapevamo nulla dei carabinieri dell’antiterrorismo. Dalla Chiesa era il nostro nemico peggiore perché era invisibile”. Uno di questi “invisibili”, che operava con il nome di Ciondolo, abile come pochi a muoversi nella notte, era riuscito a sapere, con largo anticipo, dei preparativi per l’omicidio del giornalista Walter Tobagi. Nessuno prese in considerazione le informazioni di Ciondolo, palesando un malessere che oramai gravitava attorno a Dalla Chiesa e ai suoi uomini. I metodi, l’autonomia e i poteri speciali di cui il nucleo antiterrorismo godeva cominciavano a disturbare al punto che si arrivò allo scioglimento del gruppo. Gli insegnamenti e lo spirito degli “invisibili” furono ripresi anni dopo da alcuni carabinieri del R.O.S che, adoperando gli stessi metodi abbinati alla moderna tecnologia, riuscirono nell’impresa di arrestare Totò Riina nel 1993.
A 25 anni dalla morte il Generale è ancora vivo nell’Arma; le sue intuizioni, i suoi metodi innovativi sono patrimonio di ogni attività investigativa ma, soprattutto, è ancora vivo il ricordo della straordinaria capacità di gestire i suoi uomini, ottenendo da loro il massimo nelle condizioni più impervie. Aveva sconfitto il terrorismo rosso e, se avesse vinto anche la mafia, nessun obiettivo gli sarebbe più stato precluso a coronamento di una vita trascorsa con indosso la divisa da carabiniere, con una fama di duro e qualche ombra che non scalfisce il profilo morale, che resta altissimo. Dalla Chiesa rimane un ufficiale che ha diviso, ha suscitato passioni e polemiche, applausi ed odio, ma è indiscutibile il contributo alla legalità e alla democrazia di un uomo che non si è tirato indietro nel momento che presagiva sarebbe giunto: quando una raffica di kalasnikov lo uccide la sera del 3 settembre 1982, a Palermo, assieme alla giovanissima moglie Emanuela Setti Carraro e al poliziotto Domenico Russo.
Manuel Fondato
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